Quando si parla di coaching, si dà per scontato che si sappia che cosa sia e come si applica. Poiché si tratta di un metodo, le cui caratteristiche di base vanno per definizione rispettate, è bene ricordare e non ovviamente per chi segue già il modello e le linee guida ICF, cosa si intende e quanto rispetto sia opportuno osservare nella conduzione di una sessione e di un processo intero. Intanto si parla di sessione, ovviamente e non di una seduta, il cliente è il coachee e noi come coach certificati e riconosciuti, quindi autorizzati a svolgere tale professione, ci impegniamo in tal senso, indossando questo cappello autorevole (International Coaching Federation).
Ho conosciuto il coaching per caso…(che sappiamo poi non è mai così) durante un meraviglioso viaggio con una coppia di amici storici di cui ero ospite a Bangkok. Infatti durante una cena, grazie al fatto che parlavo di questo mio specifico nuovo interesse, la mia amica mi ha segnalato un contatto a Londra, che mi ha indirizzato presso la scuola di Milano, con la quale ho iniziato il mio percorso come coach. Parliamo del 2004. La fatica grandissima è stata per me distinguere all’inizio tra l’uso della psicoterapia (ambito che navigavo da sempre) e il coaching, acquisirne il linguaggio specifico, appropriarmi degli strumenti, dei termini tecnici, dei processi. Ossia all’inizio sentivo come se il cervello pretendesse di tornare ad automatismi che per anni durante la professione avevo utilizzato.
Continuo comunque ancora per scrupolo a distinguere con molta precisione (pur essendo supportata dalla mia decennale professione come terapeuta) a seconda della richiesta e dell’obiettivo del cliente, ambito, contesto, tempi e con questi elementi, uso un approccio e occhiali differenti. Se la domanda fosse: cosa per un coach è fondamentale, potrei dire sempre e comunque la relazione, la persona con i suoi bisogni, (per questo mai consigliare e prescrivere) adattare come sa fare uno stylist raffinato, il modo di porsi, di iniziare il primo colloquio, la telefonata che anticipa la richiesta, il committente, la motivazione. Questi alcuni elementi. Il primo colloquio sappiamo che gioca la parte fondamentale, se scatta la chimica si va avanti altrimenti no. Si stringono patti, il contratto è scritto o verbale, dipende dalle situazioni, formali, azienda o privato.
Il coach, empatico per definizione, sa mettersi nei panni dell’altro, è sensibile, accoglie e ascolta, non giudica, non ha a disposizione un manuale di umanità, conosce maneggia e usa, i vari importanti aspetti di programmazione neuro linguistica, per dare senso e importanza alle parole, ai gesti alla prossemica, a ciò che viene detto tra le righe, che siano parole precise, giuste, pronunciate dal coach, la voce del cliente che nasconde o enuncia, afferma o non dice, un tono squillante o tranquillizzante del coach, che definiscano e manifestino i vissuti e non tralascia o usa generalizzazioni, lui percepisce i meccanismi di evitamento e di negazione, sa che ogni cliente, essere umano, attraverso i propri filtri, immagina e vive una realtà tutta personale.
Le sue convinzioni (del coachee) lo limitano oppure lo potenziano, il coach sa usare le metafore. Se il cliente quindi dovesse rappresentare la sua situazione in questo modo: si trova in una confusione totale, in un marasma, in una tempesta di sentimenti e non sa quale direzione prendere, sarà obbligatorio, per sfruttare ogni aspetto delle sue verbalizzazioni, soffermarsi sul termine, sulla immagine, su senso che lui, o lei darà alla parola, alla visione, a come gli risuona dentro e come sia possibile uscirne (dal marasma) come sta vivendo questo momento, che nome dà alle emozioni che prova. Cosa potrà permettergli di uscirne fuori, ammesso che lo desideri. Quali gli strumenti utili per rimanere nella situazione, quali azioni per risolvere e scogliere nodi (se ci sono nodi…e se lo desidera) Ecc. ecc.
L’intelligenza emotiva insieme, accompagna potentemente coi suoi strumenti (Six Seconds Model). Mette in luce aspetti che sono la fotografia attuale, incoraggia a scrivere, a disegnare per raccontarsi, dirige il focus sulle aree già potenti e su quelle che sarà bene sviluppare. Il coach è creativo, trova modi, crea situazioni coinvolgenti e sfrutta ogni elemento che appare nella sessione. Ogni sessione si conclude con il feedback reciproco,il piano di azione, da sviluppare e mettere a terra, con tempi bene descritti, fino al successivo incontro che inizierà con la richiesta da parte del coach del lavoro svolto.
Tutto ciò per arrivare all’obiettivo da lui/ lei prefissato e dichiarato. Bene queste alcune cose che ricordo a me stessa ogni volta e che durante la nostra Scuola di Coaching (ID Academy Coaching School) ricordiamo ai partecipanti. Inoltre tra gli strumenti utili, vale la pena citarne un altro, Points of You, carte, foto, immagini, domande e processi che hanno la facoltà, la forza, di evocare emozioni, far intraprendere percorsi da sviluppare che espandono la consapevolezza. Lo sviluppo della identità come coach, anzi come essere umano, a tutto tondo, ritengo sia un processo lungo, sofisticato e mai definitivo. Avere cura degli altri diventa ovviamente, avere anche cura di sé. Significa a mio avviso, in primis, responsabilità e coscienza di fare bene e anche molto male con una sola parola, gesto, affermazione.
Per concludere, celebriamo sempre i successi di chi si impegna a fare un passo in più nella propria vita, di chi ha centrato l’obiettivo, accompagnati da coach competenti e scrupolosi ben preparati. Anche i nostri successi, tra noi e noi stessi. grati per aver intrapreso una strada di aiuto competente. Detto tutto ciò aspetto i vostri commenti e ogni vostra eventuale richiesta di chiarimento su quanto descritto. Mi farà piacere.